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Il Maggiolino: ultimo atto

11 Luglio 2019
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A cavallo tra due secoli ne ha viste di cose… il dipanarsi di vicende sociali, economiche industriali. Poco più di ottant’anni e già due esistenze, proprio come la mitica protagonista di quel famoso film di Hitchock. Adesso, il Maggiolino della Volkswagen abdica al suo posto nella storia per trasmigrare nella nuova dimensione di mito.

L’auto voluta da Hitler, sulla falsariga della nostra Cinquecento pretesa, a sua volta, da Mussolini ‘perché gli italiani tutti potessero permettersi una vettura dal prezzo contenuto’, ha definitivamente salutato le catene di montaggio della fabbrica messicana di Puebla, dove fin’ora è stata prodotta. L’ultimo esemplare di oltre ventuno milioni destinato, questo è certo, ad essere ammirato in un museo. E chi lo avrebbe mai detto che l’utilitaria del Fuhrer sarebbe divenuta, in seguito, anche l’emblema della generazione hippie?

Maggiolino… tutto matto

Un design inconfondibile. Muso schiacciato e due immensi occhi luminosi, hanno reso questa vettura protagonista assoluta persino nel Grande Schermo. Il suo nome, Herbie, rievoca, per chi li ha vissuti, momenti di allegria e spensieratezza. In pochi, tuttavia, forse, sono al corrente del fatto che, ad ideare questa sorta di giullare dalle linee tonde, sia stato un ingegnere austriaco, Ferdinand Porche.

Già, proprio lui, il papà del leggendario marchio automobilistico. In piena epoca nazista, il progettista di auto da corsa ricevette il prestigioso incarico di inventare ‘la macchina del popolo’. Il costo, per ordine del Reich, non doveva superare i mille marchi tedeschi, otto volte lo stipendio medio di un operaio.

La coccinella dalle quattro ruote

Un progetto, per certi versi, ambizioso. Hitler fece edificare uno stabilimento apposito in Bassa Sassonia, e una città intorno, la futura Worfsburg, non troppo distante da Hannover. Nacque così, sotto l’egida tedesca, la Volkswagen. Porche ingegnò una vettura fornita di motore boxer di 1,2 litri, raffreddato ad aria. Fece di più, lo collocò posteriormente, per non rubare spazio all’abitacolo.

Risultato, abitabilità per cinque passeggeri, con l’aggiunta di un capace baule sulla parte anteriore. Poi c’era la forma. Morbida, sinuosa come le donne ritratte da Rubens, ispirata all’insetto appartenente alla famiglia degli scarabei che ne determinò anche il nome. Un successo inarrestabile, ulteriormente confermato sul finire degli anni ’60 quando, insieme al pullmino Bulli, assurse a simbolo dei Figli dei Fiori.
La storia interrotta
Gli anni della guerra, come è inevitabile, ne videro interrotta la produzione, troppo intenta, la ditta, a sostenere lo sforzo bellico, grazie alla messa a punto di cannoni, carri armati e munizioni. Inaspettata, o magari no, nel 1955, la rinascita. Un milione di esemplari venduti nel giro di poco. Un mercato che, dalla Germania, si espanse fino agli Stati Uniti, fonte di sollievo per le casse dei tedeschi. Ed è proprio negli USA che, nel 1968, si registrò una vendita record.

Oltre cinquecentosessantamila auto. Una contaminazione senza precedenti. A distanza di dieci anni, in Germania, fu la Golf a usurparne l’appeal, ma in America – in Messico, per la precisione -, il ‘vochito’ non cessò di esercitare il suo fascino. Le tracce dell’ultimo restyling risalgono al novecento. L’ennesimo colpo di coda, su idea del nipote di Porche: il New Beetle, decisamente tutt’altra cosa rispetto al modello sul quale è appena tramontato il sipario.
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