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Triumph : nata da una macchina da scrivere

17 Agosto 2019
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Se conoscessi il segreto del perché un proprietario ama la sua macchina, brevetterei quel segreto e farei dei miliardi.

In piena epoca vittoriana, prendete un rinomato uomo d’affari. Mi raccomando, che sia tedesco. Trasferitelo da Norimberga a Coventry. Invece delle macchine da scrivere incuriositelo, ed instradatelo in quello che è il profitto del momento. La vendita di biciclette. Compravendita, per la precisione, almeno in principio; in collaborazione con la William Andrews di Birgmingham.

Affiancategli un socio, tale Mauritz Schulte. Medesima provenienza, sia chiaro. Due teutonici alla testa di un’avventura che vede protagonista la Triumph. Nel 1889, sguardo al futuro, prende il via la produzione. Pochi passi in avanti e, grazie all’introduzione sul mercato del motore a combustione interna, la marcia si espande al settore motociclette. Prende vita così la Triumph Cycle Co.

La Numero 1

Quale nome più congeniale per un’apripista? Nel 1902 viene messa a punto la prima bici fornita di telaio rinforzato, avvalorata da un minuscolo motore Minerva da 2,25cv appeso al tubo obliquo. Tecnologia belga, la più avanzata di inizio secolo. La trasmissione avviene tramite una cinghia collegata alla ruota posteriore e comandata dall’albero motore. Pedali, corona, catena… sempre gli stessi.

Attendete, dunque, che trascorrano altri tre anni e assumete alla direzione della fabbrica un designer che sia anche un pilota più che discreto. Un certo Hathaway, sotto le cui mani prende vita la Model 3HP: motore monocilindrico da 363cc, capace di 3cv a 1.500 giri, velocità massima 70 Km/h.

“Otto Triumph alla partenza… Otto all’arrivo”

Più di un motto. La certezza di un’idea perfezionabile con trascorrere del tempo. La vittoria al TT con Jack Marshal, nel 1908, non fa che confermare l’affidabilità e il valore dell’oggetto in questione. Il meccanismo ‘free engine’, che consente la messa in partenza benché il cavalletto rimanga inserito, e la decisione, da parte del Governo britannico, di mettere in dotazione ai portaordini spediti al fronte una quantità decisamente abbondante di esemplari, fanno della ‘Fidata’ – questo il soprannome, forse per via delle condizioni di disagio che è costretta ad affrontare – un punto di riferimento per le aziende antagoniste.
Lo strappo
Come in tutte le fiabe che si rispettino, accade… l’inevitabile. Bettmann – vi ricordate l’omino tedesco? – nel 1920, su consiglio del General Manager, Claude Holdbrook, acquista i locali di Clay Lane della Dawson Car Company, un’ex impianto di auto, e fonda la Triumph Motor Co. Il distacco da Schulte è ormai definitivo. Si parte quindi con la produzione di una berlina da 1,4 litri. Incaricata del disegno, la Lea Francis, azienda automobilistica britannica, che pretende le royalties su ogni vettura. Il nemico in casa? La produzione è importante, ma non ancora su larga scala. Per potersi affrancare ed ottenere una divisione autonoma bisognerà attendere il 1927 e la Super 7.
La congiuntura
Più che una serie di spiacevoli eventi… Dei tre comparti: Triumph Cycle Co., Triumph Motorcycle Co. e Triumph Motor Co., a metà degli anni ’30 ne rimane solo uno, quello dedicato all settore auto. Autonomo, tuttavia, e ci sarebbe da sottolineare, finalmente. E’ così che, sotto le sapienti mani del nuovo capo progettazione, Donald Healey, nasce la ‘Dolomite’, motore ad 8 cilindri in linea, su ispirazione dell’Alfa Romeo 8C 2300. Dicevamo, sfurtunati eventi… in tempo di guerra, si sa, può accadere di tutto; anche che la ditta venga ceduta, anche che la produzione venga interrotta, anche che, nel 1940, lo stabilimento venga raso al suolo da un bombardamento.
A la guerre comme à la guerre
Nel 1945, la ripresa. Ciò che rimane della Triumph Motor Co. viene acquistato dalla Standard Motor Co. E’ la volta di un’ennesima scommessa: la Triumph Roadster 1800, dall’insolita carrozzeria in alluminio, più semplice da reperire subito dopo il conflitto bellico. A seguire, in successione: Renown, Mayflower, Triumph Roadster 2000. Ancora dieci anni di cambiamenti, fino alla piccola Herald, creazione edita – antesignana di una interminabile dinastia – dalla mano dello stilista Giovanni Michelotti.
Il gruppo Leyland
Ci sono storie che sembrano interminabili. Sotto l’egida di Michelotti vengono lanciate la Vitesse, la spyder Spitfire, la coupét GT6, e la new generation delle TR. La Brytish Leyland, frutto della fusione di più aziende, si concentra sulla messa in commercio di vetture sportive e berline dal gusto elegante, che riscuotono un certo successo. Eppure, anche qui, il destino sembra già scritto. Avverso, si intende. British Leyland viene nazionalizzata prima, dismessa poi. La Acclaim, ultima erede di un nome che è solo fantasma, risale al 1981. Da allora, i diritti di utilizzo del marchio fanno capo a BMW. A noi rimane il desiderio di guidarla…
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